“Il mio corpo non funziona come prima”: la diagnosi di malattia cronica

Curare o prendersi cura

Quando si parla di malattia si pensa alla cura. Quale cura? 
La parola “curare” rimanda al trattare la malattia, curare fisicamente la persona malata che riceve la cura. “Prendersi cura” rimanda invece a ciò che si può fare per supportare il benessere della persona malata, ed in particolare CON la persona malata e, in primo luogo, COSA PUO’ FARE una persona malata. Potendosi così pensare, la persona a cui viene fatta una diagnosi di una malattia cronica, come un soggetto attivo e non solo come un soggetto a cui è stata data quella diagnosi.

Non so più chi sono e cosa posso fare

Una malattia cronica implica non solo la gestione delle cure mediche, ma implica anche conseguenti disagi legati: ai cambiamenti fisici e di conseguenza all’immagine di sé; agli effetti collaterali delle cure farmacologiche; ad eventuali limitazioni nel quotidiano, nell’attività lavorativa, nelle relazioni; al dover fare i conti con la dipendenza dal farmaco e dagli altri.  
La persona può sentirsi rotta, può non riconoscere il proprio corpo, può far fatica a progettare o proiettarsi nel futuro, del quale sempre più sente l’incertezza.
La malattia cronica può attivare sentimenti e reazioni contrastanti. Incredulità, rabbia, tristezza, disorientamento, rinuncia, chiusura, passività, negazione.
In base alle conseguenze fisiche delle cure o della malattia, essa diventa più o meno evidente. 
La persona malata impatta con un possibile azzeramento dei confini tra sé e gli altri o con una invasione degli altri nel proprio mondo: un evento personale ed intimo diventa visibile agli occhi degli altri, ai quali non è tenuta a dare spiegazioni o con cui non vorrebbe condividere un evento così privato. Ma la differenza dal prima accompagna nel quotidiano. Il tempo interno necessario per entrare in contatto con la diagnosi non viene rispettato dalla prepotenza della realtà della diagnosi.
Inoltre, la malattia concretizza la parte vulnerabile che ognuno ha e che implica un confronto con la dipendenza e la gratitudine, aspetti che la persona può essere più o meno disponibile a riconoscere e a vivere.
La persona può scegliere di negarla, chiedendosi di proseguire come se nulla fosse accaduto, ma scontrandosi ogni giorno con la fatica di procedere al ritmo di prima avendo di ritorno costanti frustrazioni che sottolineano quello che non c’è ma che c’era, il non farcela, il non essere abbastanza, il non essere “come” (come prima, come gli altri). 
La persona può scegliere di conoscere i nuovi limiti, i nuovi bisogni del corpo, i nuovi aspetti nella relazione con gli altri, i nuovi diritti (quali leggi a tutela del paziente).
La persona può scegliere gli altri con cui condividere questa nuova parte della sua vita.
E quando gli altri sono bambini, i propri figli o nipoti, si aggiunge anche la fatica di trovare le parole “giuste” per dire. Talvolta si pensa che non dire nulla sia una forma di protezione dei bambini, ma in questo caso si crea il rischio di lasciare il bambino solo nel darsi delle spiegazioni alle modificazioni percepite, sia nel caso di cambiamenti fisici sia nel caso di cambiamenti del clima emotivo famigliare.

Integrare la malattia?

Nel percorso di  avvicinamento al significato della malattia e dell’essere malati, si attraversano paesaggi, per esempio deserti quando la persona si sente sola e disorientata; cieli pieni di nuvole quando la persona si sente distratta e lontana dai famigliari e dagli amici; in mezzo alla pioggia fredda alla ricerca di un rifugio in cui scaldarsi e asciugarsi quando prevale la tristezza; in un vulcano quando prevale la rabbia… ogni persona può permettersi di attraversare i suoi paesaggi e di stare con quei paesaggi, e nel viaggio riporre nello zaino ciò che sa di buono.
Ci sono aspetti di realtà legati alla diagnosi che non si possono cambiare. Prendersi cura è avere uno sguardo gentile su di sé che permette di usare risorse a vantaggio di ciò su cui si può intervenire.

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