Inaccostabili: la morte e il bambino.

Se immagino un bambino, lo immagino candido, sorridente, luminoso e vivo. 
La morte, lei, è dall’altra parte: dolorosa e cupa. Sono figure inaccostabili nella mia mente. Le tengo lontane, separate e distanti l’una dall’altra. Ciascuna nella propria inviolabilità: l’una miracolosa e florida, l’altra così oscuramente misteriosa. 
Frequente è il gesto con cui, al giorno d’oggi, spostiamo lo sguardo di un bambino dalla morte; si vuole proteggere l’innocenza, lo stupore chiaro, come neve pulita da non calpestare.

La morte è nella foglia di gennaio.

Eppure la morte è qua, tra di noi, sempre: in ogni luogo e in ogni istante. La mortalità è nella natura, la morte è dentro la vita.
Fa impressione, viene voglia di ignorarla, di far finta che… E quando plana su di noi, vicino a noi, visibilissima, il più delle volte ci sorprende attoniti e sbigottiti. Neghiamo neghiamo, ma ci piomba addosso. A volte si insinua come un presentimento, come la figura che ci sembra di scorgere tra i tronchi del bosco all’inizio di una fiaba; altre volte invece la sua comparsa è così immediata da non lasciare neppure il tempo per provare a pensarla.
Non è la morte raccontata in televisione: non è uno spettacolo, non è un intrattenimento. E non è neppure quella, reversibile, dei videogiochi, che “sì sei morto, ma intanto hai altre cinque vite”.
La morte è nella foglia di gennaio, accartocciata sull’asfalto. È nel passero che non volerà mai più, nell’insetto gelato, nell’albero secco; è nella nutria investita a bordo strada.

Parlarne: perché?

Come parlare della morte ai bambini? E prima ancora, perché parlare della morte ai bambini?
Perché esiste. Perché siamo mortali, circondati da esistenze mortali. Per aiutare i bambini ad introdurre, al posto di qualcosa che è al limite del non pensabile (il non essere), una rappresentazione: perché fa bene alla loro mente. Perché i bambini imparino che l’esistenza ha una durata e una fine e quindi ogni giornata è una possibilità, un’occasione. Perché rendano piena la loro vita e rispettino la vita degli altri. Perché ne abbiano cura. Perché il loro mondo interno sia fiorente. Perché essere in contatto con la vita (e quindi anche con la morte) è l’unico modo che abbiamo per nutrire noi stessi, per non accorgerci all’ultimo che non abbiamo vissuto.
È bene parlare della morte ai bambini per proteggerli da quei conduttori televisivi che raccontano la morte senza neppure una lacrima.

Posare lo sguardo.

E come parlarne? Io credo sia una buona cosa guardare, insieme al nostro bambino, quella foglia, quell’insetto, quella pianta. Non fingere di non vedere la nutria investita, ma dare parole e dispiacere per una vita terminata. Si tratta di posare lo sguardo. Di ascoltarsi e di ascoltare. Di vivere insieme anche dei silenzi, noi e il nostro bambino, dinanzi a quella vita finita. Silenzi non aridi, non vuoti, ma intimi e fecondi; silenzi dai quali possa spuntare (in noi, in lui) un pensiero, un’ipotesi, un’impressione, anche una speranza.
Ciascuno di noi ha la possibilità di trasmettere al proprio figlio, con delicatezza e con amore, un ventaglio di emozioni e di pensieri anche su questo tema, che è difficile ma essenziale. 
Non attendiamo la perdita di una persona cara per parlare di morte. Perché non tenere, ad esempio, nella camera del nostro bambino anche un libro che tocchi questo tema? Ne nomino uno tra i tanti: “Ranocchio e il merlo” di Max Velthuijs, in cui la morte è guardata da una prospettiva infantile.

Un dolore straziante.

Un genitore, anche senza accorgersene, ripensa, elabora e trasforma le emozioni prima di passarle, finalmente digeribili, al proprio figlio. Lo fa anche quando si tratta di angosce: la madre le conserva dentro di sé, le metabolizza e poi le offre al bambino in una forma tollerabile.
Qualche volta, però, ci si può sentire devastati da un dolore troppo straziante o si può avere l’impressione di arrancare, di non essere in grado di raccontare alcuni eventi: ad esempio quando è uno dei genitori a morire oppure quando è un bambino, o in molti altri casi.
Può essere utile allora confrontarsi con uno psicologo, per capire meglio cosa sta succedendo, prima dentro di noi e poi nella mente di nostro figlio. A seconda dell’età e del modo di essere del bambino, egli potrà rappresentarsi scenari differenti: un bambino piccolo, ad esempio, non comprende il carattere definitivo della morte. Il bambino potrà essere spaventato oppure provare rabbia per l’abbandono, potrà sentirsi in colpa per un litigio con la persona perduta oppure si vergognerà per il desiderio di tornare in fretta alla spensierata felicità. 
Insieme ad uno psicologo si potrà allora cercare un modo per rimanere vicini, per elaborare il lutto insieme, adulto e bambino. Senza inondare quest’ultimo con un dolore non contenuto. Senza evitare, senza rallegrare forzatamente, senza razionalizzare. Ci si potrà predisporre all’ascolto; cercare parole sincere ma sostenibili, parole vere. 

Toccarsi, morte e vita.

Wolf Erlbruch è un illustratore tedesco. La sua Morte, quella del libro “L’anatra, la morte e il tulipano”, è gentile e sorride. Indossa una lunga camicia a quadrettoni. 
La Morte di Erlbruch riappare nell’albo illustrato “La grande domanda”: sorride ad un’ape gialla. Ecco… dentro a questo disegno, le due immagini inviolabili della morte e del bambino (che è la vita) si toccano, con una delicatezza e una serenità stupefacenti.

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