“[….] Crollerebbe alla prima parola. Come tutti i duri, non ha resistenza. È il principio della noce. Premi, e si rompe. Provi, invece, a rompere del miele”. (F. Vargas, Nei boschi eterni)

Durezza e forza

Il contrario di duro non è fragile; il sinonimo di duro non è forte.
Eppure, spesso ci si confonde: si prende la durezza per coraggio, la freddezza per forza. Si scambiano superfici coriacee, apparenze granitiche con la capacità di affrontare la vita a viso aperto.
È vero, ciò che è duro tende a resistere, a volte per tempi molto lunghi, a colpi molto pesanti. Poi però, senza per forza presagire il cedimento, arriva d’un tratto al punto di rottura. Semplicemente si crepa, si spacca, va in pezzi, e da quel momento diventa difficile ricomporlo, rimetterlo insieme. Il suo limite è tutt’uno con la sua apparente forza: una rigidità che non incassa né attutisce, divenendo così frattura.

Gusci e armature

Le armature sono gusci, duri involucri, difficili da penetrare. La loro solida resistenza è preziosa sul campo di battaglia: contro nemici armati fino ai denti, può salvar la vita. Ma in tempo di pace è una rigidità che impaccia, intralcia, congela: impedisce di correre, ballare, abbracciare, sentire il sole in fronte. Rinunce un po’ eccessive, in assenza di un pericolo mortale. Chi le indossa appare un invincibile guerriero, ma si protegge per paura; dietro una maschera d’acciaio mette al riparo le proprie camuffate fragilità. L’armatura è muro: respinge le minacce. Ma ha superficie compatta, che non filtra, non distingue, non scende a compromessi: tiene fuori anche il buono che potrebbe far passare. Ma cosa, in fondo, spaventa tanto “il duro”? Forse che ogni incontro possa trasformarsi in scontro, impatto inesorabile che colpisce forte e penetra violento. E allora indossa la corazza, per respingere il dolore che ferisce e l’intrusione che trafigge; per rimanere intatto, non si deve far toccare.

Le noci e il miele

Così è il duro guscio della noce: oppone strenua resistenza, finché, sotto i colpi e le pressioni, arriva a cedere e spezzarsi. E rompendosi subisce cambiamenti profondi, fino a smarrire la sua essenza. Non può più contenere, non riesce più a proteggere, abbandona la sua rotondità, perde la sua compattezza. Smette quindi di essere “guscio”.
In un vasetto di miele vellutato può invece sprofondare un cucchiaino, con energia o delicatezza, il miele comunque lo accoglierà. Anche questo incontro porta con sé un contatto che trasforma: il miele deve fare spazio, separarsi, riposizionarsi, raffreddarsi. Ma nel profondo resta ciò che è: un fluido denso, dolce, appiccicoso, spalmabile, emolliente, ambrato.
Ecco come il morbido miele, accogliendo ed avvolgendosi attorno, incontra l’altro senza rompersi o perdere se stesso. E come il duro guscio, con tutta la sua cocciuta robustezza, subisce un urto che lo modifica fino a distruggerlo. La sua superficie non è in grado di prendere dentro ciò che è esterno; non può fare altro che ammaccarsi, snaturarsi e infine andare in pezzi.

La forza morbida del miele

Come insegna “il principio della noce”, per andare incontro alla vita, coi suoi tesori e i suoi pugnali, non serve tanto essere “duri”, conviene piuttosto essere “forti”.
In noi domina un’idea di Forza dagli attributi maschili: fallica, muscolosa, erculea. Un corpo possente, una volontà d’acciaio, un’impronta che imprime, una motivazione che smuove. Ma accanto a questa veste eroica, la forza possiede un volto più discreto e silenzioso, incisivo nella sua potente delicatezza. Una disposizione a farsi avvicinare, raggiungere, toccare, talvolta anche attraversare, dalle cose della vita: è “la forza del miele”, una qualità dai lineamenti dolci, dalla sagoma femminile, dalle fattezze materne. È capacità di accogliere, di “farsi affondare”, di creare cavità interne per far spazio a ciò che arriva, senza dover ricacciare indietro o farsi danneggiare. È morbidezza, che offre impatti smorzati ed elastici, evitando colpi secchi, che fuori spezzano e dentro stravolgono.

Fiducia e coraggio

Lo si può fare, se si è disposti a vacillare un po’. Se non si ha troppa paura di toccare le proprie preziose sicurezze: la propria integrità, la propria identità.
Lo si può fare se si possiede un po’ di quel coraggio che non nasce dall’imprudenza ma che è figlio della fiducia. Coraggio e fiducia, ecco di che pasta (insieme morbida e compatta) è fatta la forza. Un’attitudine a incontrare e “farsi ritoccare” senza il terrore di smarrirsi e non riconoscersi più.
Mi viene in mente il corpo, nel suo essere orchestra che armonizza timbri e sonorità differenti. Un connubio di parti, alcune solide e strutturate (lo scheletro che sostiene, i muscoli che muovono), altre morbide ed elastiche (i fluidi che circolano, le articolazioni che snodano). Anche la mente può provare a combinare in sé “consistenze diverse”: gusci per strutturare, involucri per proteggere, reti per filtrare, miele per fluidificare.
Si compone così l’immagine di una forza più autentica, una disponibilità a fare esperienze che scendano in profondità, non come spade che trafiggono, ma come semi che si appoggiano, a volte trovano terreno, vengono assorbiti e germogliano dentro.

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